All’esercito imperiale che nella primavera del 1527 avanzava alla volta di Roma sotto la guida di Georg von Frundsberg e di Carlo III di Borbone, la Città eterna dev’esser apparsa come una preda quasi troppo facile; Firenze s’era da subito mostrata troppo ben difesa, laddove, au contraire, le imperdonabili ingenuità di Clemente VII avevano praticamente sguarnito d’ogni efficace protezione la Città che era stata dei Cesari. È probabile che con animo ben differente il legislatore fallimentare si sia accostato al diritto di famiglia, rectius ai suoi profili d’intersezione con le problematiche concorsuali. Tuttavia, il risultato concreto non risulta, per certo, meno esecrabile: lì, infatti, l’inimmaginabile sacco del 7 maggio 1527; qui una disciplina che denuncia una disattenzione a tratti imbarazzante, o meglio una significativa carenza di sensibilità per quelle logiche familiari che, quantomeno in taluni casi, ben potrebbero ritenersi prevalenti. Invero, a voler proseguire in quello che dovrebbe profilarsi quale un parallelo improbabile e che invece si disvela calzante, si rinvengono ulteriori e sconsolanti punti di contatto: in primis, nella colpevole superficialità con la quale il legislatore della famiglia ha del tutto ignorato la prospettiva in parola, lasciando siffatto piano di delicata contiguità nella mani d’una normazione naturaliter calibrata su paradigmi puramente patrimoniali. Una superficialità che, ulteriormente perpetrata negli anni, costerà all’equilibrio del diritto della famiglia quanto costarono a Roma gli errori di Clemente VII. Non solo, ma così come né Carlo V né i generali chiamati a condurre l’inarrestabile marea imperiale immaginavano per la vicenda sviluppi sì inquietanti, parimenti è plausibile che né il legislatore della legge fallimentare del ’42 né quello della sua recente riforma abbiano perseguito un preciso e predeterminato disegno nella regolamentazione del rapporto tra famiglia e fallimento; anzi, l’asse della disciplina sembra con l’ultimo intervento esser in concreto mutato – nemmeno a dirlo, in peius – finanche contro la volontà dichiarata nei lavori preparatori. Queste assumono però i contorni di vere e proprie considerazioni conclusive che, di là da raffronti di sorta e da accenti più o meno critici, reclamano una precisa linea argomentativa in grado di sostenerle. Da qui, come sempre, l’opportunità di procedere per ordine anche se brevemente, lungo una tematica poco battuta ma che immediatamente s’appalesa come complessa e soprattutto articolata nel tempo.
Famiglia e fallimento: fenomenologia giuridica d'un rapporto irrisolto (a dispetto delle recenti riforme del diritto concorsuale)
MATERA, PIERLUIGI
2007-01-01
Abstract
All’esercito imperiale che nella primavera del 1527 avanzava alla volta di Roma sotto la guida di Georg von Frundsberg e di Carlo III di Borbone, la Città eterna dev’esser apparsa come una preda quasi troppo facile; Firenze s’era da subito mostrata troppo ben difesa, laddove, au contraire, le imperdonabili ingenuità di Clemente VII avevano praticamente sguarnito d’ogni efficace protezione la Città che era stata dei Cesari. È probabile che con animo ben differente il legislatore fallimentare si sia accostato al diritto di famiglia, rectius ai suoi profili d’intersezione con le problematiche concorsuali. Tuttavia, il risultato concreto non risulta, per certo, meno esecrabile: lì, infatti, l’inimmaginabile sacco del 7 maggio 1527; qui una disciplina che denuncia una disattenzione a tratti imbarazzante, o meglio una significativa carenza di sensibilità per quelle logiche familiari che, quantomeno in taluni casi, ben potrebbero ritenersi prevalenti. Invero, a voler proseguire in quello che dovrebbe profilarsi quale un parallelo improbabile e che invece si disvela calzante, si rinvengono ulteriori e sconsolanti punti di contatto: in primis, nella colpevole superficialità con la quale il legislatore della famiglia ha del tutto ignorato la prospettiva in parola, lasciando siffatto piano di delicata contiguità nella mani d’una normazione naturaliter calibrata su paradigmi puramente patrimoniali. Una superficialità che, ulteriormente perpetrata negli anni, costerà all’equilibrio del diritto della famiglia quanto costarono a Roma gli errori di Clemente VII. Non solo, ma così come né Carlo V né i generali chiamati a condurre l’inarrestabile marea imperiale immaginavano per la vicenda sviluppi sì inquietanti, parimenti è plausibile che né il legislatore della legge fallimentare del ’42 né quello della sua recente riforma abbiano perseguito un preciso e predeterminato disegno nella regolamentazione del rapporto tra famiglia e fallimento; anzi, l’asse della disciplina sembra con l’ultimo intervento esser in concreto mutato – nemmeno a dirlo, in peius – finanche contro la volontà dichiarata nei lavori preparatori. Queste assumono però i contorni di vere e proprie considerazioni conclusive che, di là da raffronti di sorta e da accenti più o meno critici, reclamano una precisa linea argomentativa in grado di sostenerle. Da qui, come sempre, l’opportunità di procedere per ordine anche se brevemente, lungo una tematica poco battuta ma che immediatamente s’appalesa come complessa e soprattutto articolata nel tempo.I documenti in IRIS sono protetti da copyright e tutti i diritti sono riservati, salvo diversa indicazione.