Il fenomeno della serialità videoludica è multidisciplinare, e riflette coerentemente la stessa natura sfaccettata di un medium non più etichettabile come “nuovo” (Kent, 2002). Parlare di serialità e di giochi digitali significa osservare le modalità con cui il linguaggio videoludico frammenta narrazioni o reitera archetipi, ma impone anche riflessioni sul modo in cui ripropone e rimodula in sé interi processi. La proceduralità (Bogost, 2008, 2010), un concetto che può essere riassunto come la capacità mediatica di attivare processi e comunicare attraverso di essi, è uno dei marchi di fabbrica del videogioco inteso come medium. In questo, il videogioco non può essere paragonato a nessun altro dei media preesistenti: se in letteratura e cinema si può parlare di giallo o di genere noir, in questo caso il lessico è ricco di anglicismi come platform, multiplayer online, battle arena e roguelike. La differenza non sta solo nelle terminologie largamente importate da altre lingue, ma in ciò che esse esprimono: da un lato abbiamo una categorizzazione basata sui generi o su archetipi narrativi; dall’altra, una costruzione di nuovi archetipi di stampo, appunto, procedurale. Il videogioco basa dunque gran parte della sua fidelizzazione dell’utente sulla riproposizione di schemi di interazione ben riconoscibili, che hanno lo stesso potere serializzante dei generi intesi in senso narratologico. Fin da Super Mario Bros. (Nintendo, 1985) le serie videoludiche non si basano su un filo logico necessariamente narrativo, ma sulla costruzione di immaginari che ripropongono di volta in volta elementi familiari all’utente, spesso legati alle meccaniche di gioco. Ciò che collega un titolo della serie The Legend of Zelda ai suoi predecessori non è dunque la prosecuzione di un arco narrativo, ma l’immaginario di Hyrule e l’eredità ludica, fatta di meccaniche che il giocatore sa di trovare all’interno del gioco. Sia in una trasposizione bidimensionale o all’interno di un vasto mondo da esplorare in tre dimensioni, si parla sempre più spesso di worldbuilding come chiave di successo delle maggiori serie videoludiche come Fallout o The Elder Scrolls (Sierra, 2020). L’effetto identitario è il motore che spesso spinge il consumatore all’acquisto di un software o persino di un hardware specifico. Quella del videogioco è stata infatti da sempre una forma di serialità legata soprattutto allo sviluppo di nuove tecnologie. Con ogni miglioramento dell’hardware è coinciso un aggiornamento del software, delle sue potenzialità e conseguentemente della sua serializzazione. Gli episodi delle saghe videoludiche si associano a specifiche console, ne diventano araldi o persino epitaffi: Halo: Combat Evolved (Bungie Studios, 2001) e l’Xbox, Metal Gear Solid (Konami, 1998) e la PlayStation, Shenmue (Sega-AM2, 1999) e il Dreamcast, Pokémon Versione Rossa e Pokémon Versione Blu (Nintendo, 1998b, 1998a) e il Game Boy Color. Tutte queste caratteristiche fanno riferimento a un livello di serializzazione macro o, se vogliamo, verticale: opere videoludiche diverse che si incastrano in un filone di connessioni extra-narrative. Esiste però anche un altro livello, che potremmo definire micro o orizzontale, che si riflette invece su un modello di serialità tipico, quasi intrinseco, del videogioco: la suddivisione in livelli. A metà tra le necessità di proporre una sfida variegata all’interno di uno stesso gioco e le migliorie tecnologiche sempre più possibiliste, questa caratteristica modalità di serializzazione costituisce un altro fulcro del medium. I giochi sono esperienze episodiche per natura, che richiedono molto più tempo di altri prodotti mediali per essere fruite nella loro interezza (Aarseth, 1997) o possono essere reiterate senza vincoli. Dietro questo modello di serialità ci sono varie ragioni, tra cui il bisogno di variegare un’esperienza che può appunto durare molto a lungo: ecco perché troviamo livelli subacquei in Super Mario Bros 3, o la Foresta Perduta in The Legend of Zelda: Ocarina of Time e Quarry Junction in Fallout: New Vegas. Si tratta di concetti che attingono a piene mani dai Multi User Dungeon (Aarseth, 1997 op. cit.) e che si traducono in aree di gioco tematiche come in un gigantesco parco giochi, in modo più o meno esplicito, nel caso dei videogiochi open world (a mondo aperto e liberamente esplorabile).
Gli albori della serialità videoludica
Ceccherelli, A;
2024-01-01
Abstract
Il fenomeno della serialità videoludica è multidisciplinare, e riflette coerentemente la stessa natura sfaccettata di un medium non più etichettabile come “nuovo” (Kent, 2002). Parlare di serialità e di giochi digitali significa osservare le modalità con cui il linguaggio videoludico frammenta narrazioni o reitera archetipi, ma impone anche riflessioni sul modo in cui ripropone e rimodula in sé interi processi. La proceduralità (Bogost, 2008, 2010), un concetto che può essere riassunto come la capacità mediatica di attivare processi e comunicare attraverso di essi, è uno dei marchi di fabbrica del videogioco inteso come medium. In questo, il videogioco non può essere paragonato a nessun altro dei media preesistenti: se in letteratura e cinema si può parlare di giallo o di genere noir, in questo caso il lessico è ricco di anglicismi come platform, multiplayer online, battle arena e roguelike. La differenza non sta solo nelle terminologie largamente importate da altre lingue, ma in ciò che esse esprimono: da un lato abbiamo una categorizzazione basata sui generi o su archetipi narrativi; dall’altra, una costruzione di nuovi archetipi di stampo, appunto, procedurale. Il videogioco basa dunque gran parte della sua fidelizzazione dell’utente sulla riproposizione di schemi di interazione ben riconoscibili, che hanno lo stesso potere serializzante dei generi intesi in senso narratologico. Fin da Super Mario Bros. (Nintendo, 1985) le serie videoludiche non si basano su un filo logico necessariamente narrativo, ma sulla costruzione di immaginari che ripropongono di volta in volta elementi familiari all’utente, spesso legati alle meccaniche di gioco. Ciò che collega un titolo della serie The Legend of Zelda ai suoi predecessori non è dunque la prosecuzione di un arco narrativo, ma l’immaginario di Hyrule e l’eredità ludica, fatta di meccaniche che il giocatore sa di trovare all’interno del gioco. Sia in una trasposizione bidimensionale o all’interno di un vasto mondo da esplorare in tre dimensioni, si parla sempre più spesso di worldbuilding come chiave di successo delle maggiori serie videoludiche come Fallout o The Elder Scrolls (Sierra, 2020). L’effetto identitario è il motore che spesso spinge il consumatore all’acquisto di un software o persino di un hardware specifico. Quella del videogioco è stata infatti da sempre una forma di serialità legata soprattutto allo sviluppo di nuove tecnologie. Con ogni miglioramento dell’hardware è coinciso un aggiornamento del software, delle sue potenzialità e conseguentemente della sua serializzazione. Gli episodi delle saghe videoludiche si associano a specifiche console, ne diventano araldi o persino epitaffi: Halo: Combat Evolved (Bungie Studios, 2001) e l’Xbox, Metal Gear Solid (Konami, 1998) e la PlayStation, Shenmue (Sega-AM2, 1999) e il Dreamcast, Pokémon Versione Rossa e Pokémon Versione Blu (Nintendo, 1998b, 1998a) e il Game Boy Color. Tutte queste caratteristiche fanno riferimento a un livello di serializzazione macro o, se vogliamo, verticale: opere videoludiche diverse che si incastrano in un filone di connessioni extra-narrative. Esiste però anche un altro livello, che potremmo definire micro o orizzontale, che si riflette invece su un modello di serialità tipico, quasi intrinseco, del videogioco: la suddivisione in livelli. A metà tra le necessità di proporre una sfida variegata all’interno di uno stesso gioco e le migliorie tecnologiche sempre più possibiliste, questa caratteristica modalità di serializzazione costituisce un altro fulcro del medium. I giochi sono esperienze episodiche per natura, che richiedono molto più tempo di altri prodotti mediali per essere fruite nella loro interezza (Aarseth, 1997) o possono essere reiterate senza vincoli. Dietro questo modello di serialità ci sono varie ragioni, tra cui il bisogno di variegare un’esperienza che può appunto durare molto a lungo: ecco perché troviamo livelli subacquei in Super Mario Bros 3, o la Foresta Perduta in The Legend of Zelda: Ocarina of Time e Quarry Junction in Fallout: New Vegas. Si tratta di concetti che attingono a piene mani dai Multi User Dungeon (Aarseth, 1997 op. cit.) e che si traducono in aree di gioco tematiche come in un gigantesco parco giochi, in modo più o meno esplicito, nel caso dei videogiochi open world (a mondo aperto e liberamente esplorabile).I documenti in IRIS sono protetti da copyright e tutti i diritti sono riservati, salvo diversa indicazione.


