Prospettive delle decisioni europee su sicurezza e difesa 1. Le ragioni di una difesa comune La Brexit prima e la Presidenza Trump poi hanno avuto l’effetto di imprimere una accelerazione ai progressi nel campo della politica europea di sicurezza e di difesa comune (PSDC). Di questa accelerazione viene sottolineata in misura crescente l'esigenza in un contesto geopolitico globale nel quale la gestione delle crisi, con tutte le loro conseguenze sui piani della sicurezza, dell'economia e dei flussi migratori, richiede una attiva presenza dell'Europa che i singoli stati membri, anche i più grandi, non possono realizzare senza una progressiva integrazione delle loro capacità. Il processo in questo campo era iniziato con il Trattato di Maastricht, quando la Francia pose come condizione all'unificazione tedesca la creazione della moneta unica e la previsione, sia pure con una gestione intergovernativa e non comunitaria, di una politica estera e di sicurezza comune, comprensiva di una politica della difesa che secondo le parole dello stesso trattato, concordate dal Presidente Mitterand e dal cancelliere Kohl, "può condurre ad una difesa comune". Il concetto fu fatto digerire al Regno Unito con un compromesso al ribasso che tendeva essenzialmente ad escludere la possibilità di capacità autonome dell'UE rispetto alla NATO. In presenza delle crisi nei Balcani e in Africa e dopo l'elezione nel Regno Unito di Tony Blair, più attento ai meriti dell'Unione Europea, il processo assunse comunque vigore con la Dichiarazione di Saint Malo del Dicembre 1998 nella quale il Presidente Chirac e il Primo Ministro britannico, pur con le rispettive riserve mentali, avevano posto le basi per un necessario salto di qualità. Questo accadde con diverse decisioni del Consiglio europeo e poi soprattutto con il Trattato di Nizza, firmato nel 2001 ed entrato in vigore nel 2003, seguiti dalla messa in campo di istituzioni, strumenti e procedure, e con l'avvio, sotto la spinta appunto delle crisi balcaniche e africane, di missioni militari e civili per la loro gestione in un quadro multilaterale. Il contesto, voluto soprattutto da Londra è però rimasto quello di una subordinazione delle capacità militari dell'UE a quelle della NATO con tentativi della Francia di svincolarsene. Su queste basi è stato quindi concordato che l'UE debba ricorrere per le proprie operazioni militari alle capacità di pianificazione, comando e controllo della NATO o alternativamente di uno degli stati membri dell'Unione, rinunciando ad averne di proprie. Il tentativo franco-tedesco nel 2003 di costituire un quartier generale europeo dotato di tali capacità, in coincidenza del resto con le divisioni sull'intervento anglo-americano in Iraq, segnò uno dei momenti di maggiore tensione all'interno delle due organizzazioni e tra le loro strutture, acuite anche dai contrasti su Cipro (membro dell'UE, ma non della NATO, che la Turchia, membro della NATO, non riconosce). Le operazioni militari dell’UE nei Balcani utilizzarono quindi assetti e capacità della NATO, mentre in Africa furono utilizzate quelle della Francia come “framework nation”. All'UE è stata comunque lasciata la competenza pressoché esclusiva delle missioni civili di stabilizzazione o di prevenzione come quelle di polizia, di rule of law, di edificazione istituzionale nei campi della sicurezza, della giustizia, della pubblica amministrazione e dello sviluppo economico, spesso in sinergia con attività della Commissione finanziate con fondi comunitari. Altro aspetto caratterizzante delle missioni europee è stato quello della collaborazione operativa con le organizzazioni internazionali e regionali. Questo è stato ed è particolarmente rilevante per le crisi africane, rispetto alle quali l'UE sostiene le capacità e le attività di gestione anche militare dell'Unione Africana e delle organizzazioni sub-regionali, come ad esempio sta accadendo con le missioni nel Sahel, tra le quali potrà essere quella in Niger al momento non inserita in un quadro PSDC (come invece dovrebbe essere) cui ha manifestato l’ntenzione di voler partecipare l'Italia. Si tratta in tale regione di missioni per la lotta al terrorismo e al traffico di esseri umani nel quadro di un approccio complessivo al tema delle migrazioni centrato sul sostegno ad uno sviluppo sostenibile e inclusivo e su una gestione legale e concordata della mobilità. E' sempre più evidente in questo quadro la consapevolezza dell’esigenza di economie di scala e del superamento o della riduzione di sprechi e duplicazioni che una maggiore integrazione o effettivi processi di messa in comune e condivisione di assetti e capacità comporterebbe, considerato che a fronte di una spesa militare dei paesi dell'UE pari a poco meno della metà di quella degli Stati Uniti la loro efficacia operativa risulta essere soltanto del 15%. Vi sono poi i mutati e mutevoli atteggiamenti americani nei confronti dell'integrazione europea nel campo della difesa. Diffidenti, sia pure con gradazioni diverse, quelli delle Amministrazioni Clinton e Bush, più favorevoli quelli dell’Amministrazione Obama con l’invito ad un maggiore impegno europeo nel Mediterraneo, nel Medio Oriente e in Africa, poco chiari quelli dell’Amministrazione Trump, la cui imprevedibilità costituisce un ulteriore incentivo per gli europei a rafforzare coesivamente le proprie capacità. Trump insiste, con una più ostentata enfasi rispetto ai suoi predecessori, soprattutto sull’aumento delle spese per la difesa dei paesi europei che senza ulteriori qualificazioni e maggiore efficienza grazie a processi di integrazione rischiano tuttavia di non portare a risultati concreti sul piano delle effettive capacità ma di produrre anzi maggiori sprechi. 2. Un più elevato livello di ambizione E' cosi cresciuto il livello di ambizione prospettato dall'Alta Rappresentante e Vice Presidente della Commissione con il sostegno di alcuni paesi nella logica di "pooling and sharing" enunciata, malgrado le diluizioni britanniche, in diversi documenti adottati dal Consiglio Europeo e dal Consiglio Esteri-Difesa a partire dalla fine del 2013 ma poi poco attuata. Coerentemente con le indicazioni della Strategia globale dell’UE presentata dall’Alta Rappresentante Mogherini e approvata dal Consiglio Europeo nel 2016, ed andando successivamente oltre essendo venuti meno i condizionamenti britannici di cui risentiva ancora il documento, è stato infatti affermato che l’UE deve dotarsi di autonomia strategica e quindi della capacità di agire autonomamente nel proprio vicinato, di schierare forze e di possedere le strutture operative ed industriali necessarie a farlo. E per evitare duplicazioni e dispersione delle spese è previsto un meccanismo di coordinamento per la sincronizzazione dei cicli di pianificazione degli stati membri (Coordinated Annual Review of Defence o CARD). Sono inoltre proposti in questo ambito: - una struttura europea permanente per la pianificazione strategica e la conduzione delle operazioni militari, partendo da quelle "non esecutive" di capacity building, il cui concetto è stato approvato dal Consiglio Esteri del marzo 2017; - lo stabilimento di una forza multinazionale europea permanentemente disponibile con una massimizzazione del rapporto costi-benefici in termini di prontezza, mobilità strategica, maggiore interoperabilità e protezione delle forze; - un sistema comune di formazione; - un crescente impegno nella cyber security, nella sicurezza navale e nell’intelligence. Viene anche prospettato un sostegno allo sviluppo di una base industriale e tecnologica strategicamente autonoma nel campo degli armamenti in grado di fornire le capacità richieste. E ciò anche attraverso: - un potenziamento dell'Agenzia Europea di Difesa (EDA), costituita nel 2004 per sostenere la ricerca e progetti comuni ma rimasta sostanzialmente inoperante a causa dei freni britannici; - incentivi fiscali e finanziari alla cooperazione industriale diretta allo sviluppo di capacità definite congiuntamente e in coordinamento con le analoghe attività condotte in ambito NATO; - il concorso della Commissione per il finanziamento di attività di ricerca a doppio uso e finanziamenti della Banca Europea degli Investimenti. E' prospettato quindi un sistema di finanziamento comune (European Defence Fund) per la ricerca, lo sviluppo e l’acquisizione di capacità di difesa, argomento in qualche modo collegato a quello della costituzione di una capacità di spesa o di un bilancio per la gestione di alcuni beni comuni, concetto ripreso dal Presidente Macron e dal Presidente del Consiglio Gentiloni, riferiti ad una autorità politica con la legittimazione democratica assicurata da un controllo, da una investitura e da un potere decisionale e normativo a livello parlamentare. Il Fondo Europeo per la Difesa ha attualmente uno stanziamento pluriennale di soli 500 milioni di euro. La crescita che si vorrebbe perseguire è diretta anche a rafforzare il pilastro europeo della NATO e quindi la capacità europea di contribuire alla difesa transatlantica e a favorire la stabilità in aree critiche per la sicurezza comune. 3. Integrazione differenziata Una effettiva più intensa integrazione appare comunque di difficile realizzazione a 27, tenuto conto delle ostilità e resistenze soprattutto dei paesi dell'Europa centro-orientale e delle remore dei paesi neutrali. Vanno quindi usati per andare in tale direzione gli strumenti previsti dai Trattati quali la cooperazione strutturata permanente (PESCO) tra i paesi che lo vogliano oppure nuovi accordi tra gruppi limitati di stati con il rischio però che questi producano nuove fratture nel continente dai seguiti imprevedibili. Una PESCO è stata effettivamente costituita nella riunione del Consiglio del 13 dicembre scorso. Ad essa, con termini di riferimento da riempire di realizzazioni concrete, hanno deciso di aderire 23, poi diventati 25, Stati membri su 27. Questa larghissima partecipazione, inclusiva di paesi esplicitamente euroscettici ma desiderosi di non essere esclusi come la Polonia e l’Ungheria, rischia tuttavia di diluire il processo e le sue ambizioni. E’ stata sostenuta con queste dimensioni soprattutto dalla Germania per mantenere ancorati paesi a rischio di deriva sul suo confine orientale, mentre la Francia avrebbe preferito una compagine più ristretta ma più coesa e con maggiori ambizioni. Si tratta ora di vedere quali progetti comuni saranno effettivamente realizzati, con o senza la partecipazione di tutti i 25. La Governance della PESCO sarà comunque assicurata dalle istituzioni europee esistenti, in particolare il Consiglio, il Comitato Politico e di Sicurezza e il Comitato Militare che da quest’anno sarà guidato dall’attuale Capo di Stato Maggiore italiano della Difesa Generale Graziano. Nell’ambito della PESCO sono stati identificati 17 progetti di integrazione per coloro che lo vogliano nei settori in particolare della cyber security, della mobilità, della formazione militare, dell’impiego in caso di disastri, della sanità militare, della sorveglianza marittima, del comando e controllo delle missioni, dei veicoli da combattimento terrestri e anfibi (All. 1). La PESCO è quindi ancora un contenitore che va riempito, con partecipazioni differenziate per i singoli progetti. Con la Brexit l'Unione Europea perde lo Stato membro che assieme alla Francia ha le maggiori capacità sul piano militare. La sua uscita, come già indicato, rende tuttavia possibile l'auspicata maggiore integrazione sul piano militare tra chi la vuole. Ma ad esso, come ad altri paesi membri che non intendano procedere ora sulla strada della maggiore integrazione, va comunque lasciata la porta aperta per partecipazioni a specifiche attività o per unirsi successivamente al processo integrativo. Per il Regno Unito questo riguarda soprattutto la partecipazione ad operazioni e la cooperazione industriale, nella quale numerosi sono i progetti realizzati negli ultimi anni da imprese britanniche con imprese italiane, francesi e tedesche soprattutto nei settori aeronautico e missilistico. 4. La volontà politica Sul terreno del sostegno ad una maggiore integrazione si sono in particolare spesi il Ministro degli Esteri e poi Presidente del Consiglio Paolo Gentiloni e la Ministra della Difesa Roberta Pinotti. Almeno nelle enunciazioni e sia pure con alcune ambiguità hanno parlato di una più intensa integrazione esponenti di Francia, Germania, Spagna e paesi del Benelux come è indicato in diversi documenti. Nel suo discorso alla Sorbona del 26 settembre scorso, il Presidente Macron ha affermato che obbiettivo europeo dovrà essere la costituzione di una capacità di azione autonoma, in complemento con la NATO. Dopo quanto fatto finora, ha detto il Presidente francese, occorre andare più avanti. Serve una cultura strategica comune da realizzare attraverso integrazioni reciproche nelle rispettive forze armate a tutti i livelli. La Francia è pronta a farlo subito nella prospettiva - è sempre Macron che parla - di una forza comune di intervento e di un bilancio della difesa comune (All. 2). Fuga in avanti? E’ probabile. Ed intanto vediamo quanto sarà di tutto questo nel nuovo Trattato dell’Eliseo e comunque nei rapporti franco-tedeschi nel cui ambito la cooperazione in campo militare è già molto avanzata. Va quindi verificato quanto l'annunciato europeismo di Macron e la volontà del Governo tedesco che scaturirà dai laboriosi negoziati in corso tra le forze politiche faranno compiere passi concreti in questa direzione, nonché come l’Italia, dopo le elezioni legislative, saprà svolgere un ruolo di protagonista assieme agli altri due maggiori paesi europei e a coloro che convintamente vorranno unirsi a loro. E' questo un tema inevitabilmente legato a quello delle scelte di politica estera per le quali può essere deciso l’uso dello strumento militare. Costantemente la Francia ha mostrato di volere un sostegno europeo, con strumenti europei, a proprie decisioni e per propri disegni soprattutto in Africa, a volte pienamente coincidenti con quelli dell’Unione nel suo insieme e a volte meno. Lo si è visto nella Repubblica Democratica del Congo, in Mali, nella Repubblica Centro Africana e in prospettiva in Niger. Le risposte sono spesso state al di sotto delle aspettative. I partner sono stati a volte riluttanti o pronti a dare contributi poco più che simbolici. La Germania ha mostrato recentemente una maggiore, seppur sempre limitata, disponibilità, al pari del Regno Unito, mentre a Parigi è stata considerata deludente la risposta italiana prima della decisione di partecipazione alla missione in Niger che nasce peraltro già con qualche incomprensione . In questo caso gli interessi europei e italiani sono abbastanza chiari, e probabilmente simili iniziative a sostegno di forze africane potrebbe essere estese anche alla Libia con una maggiore enfasi sulla protezione dei migranti, un loro rimpatrio assistito nei paesi di origine laddove possibile e l’asilo in Europa e altrove per chi ne abbia il diritto assieme alla previsione di un aumento dei canali di immigrazione legale. Sullo sfondo vi sono tuttavia i diversi atteggiamenti ai livelli di Governo, di Parlamento e di opinione pubblica riguardo all'impiego dello strumento militare. Più interventista e abituato al combattimento e alla sopportazione di perdite è quello della Francia (come del resto quello del Regno Unito). Più prudente e restio ad elevare l'intensità dello sforzo militare e le regole d'ingaggio è invece quello di Germania e Italia che anche nelle operazioni NATO forniscono in genere aerei per la ricognizione e il supporto logistico ma non per l'attacco, nonché truppe di terra per l'addestramento e il presidio del territorio ma non per il combattimento. Fino a quale livello potranno realizzarsi integrazione e condivisioni di sovranità con queste diversità di approccio e in mancanza di una piena identità di obiettivi e di visioni politiche? Resta inoltre il fatto che se si vuole passare dal livello della gestione delle crisi, per la quale servono comunque obbiettivi politici pienamente condivisi, a quello di una vera difesa comune, pur senza pregiudicare l'essenziale copertura NATO fin quando gli Stati Uniti vorranno mantenerla, sarà inevitabile porsi il problema della deterrenza nucleare francese, finora considerata come una capacita che non si può condividere per la sua stessa natura e per la sua intima identificazione con il cuore della sovranità e con la stessa sopravvivenza del soggetto che la detiene e ne decide l’uso. Come per la moneta unica uno strumento militare unificato, seppure con le gradualità che le circostanze richiedono, può essere difficilmente funzionante senza una vera unione politica in una prospettiva federale o di gestione sovranazionale come è stato perseguito in altri settori fin dall’inizio del processo integrativo europeo. E’ difficile, ma è a questa prospettiva che occorre puntare da parte dei tre maggiori paesi dell’UE assieme agli altri che vogliano seguirli su questa strada, ben sapendo che per le ragioni già esposte il percorso sarà lento e complicato e che occorre intanto realizzare tutte le collaborazioni e forme di integrazione che le circostanze rendono possibili. Per l’Europa il rapporto transatlantico resta un pilastro fondamentale della propria sicurezza, anche per la superiorità nucleare e convenzionale non raggiungibile degli americani. Ma per rafforzarlo di fronte ai segnali preoccupanti che vengono da oltre Atlantico occorre, oggi più che mai, che gli Europei accrescano la loro capacità di essere gestori, assieme all’alleato americano, di una sicurezza finora sostanzialmente lasciata nelle mani dello stesso alleato. Come ha recentemente sottolineato la Cancelliera Merkel occorre che l’Europa riprenda in mano il proprio destino.

Prospettive delle decisioni europee su sicurezza e difesa

MELANI M
2018-01-01

Abstract

Prospettive delle decisioni europee su sicurezza e difesa 1. Le ragioni di una difesa comune La Brexit prima e la Presidenza Trump poi hanno avuto l’effetto di imprimere una accelerazione ai progressi nel campo della politica europea di sicurezza e di difesa comune (PSDC). Di questa accelerazione viene sottolineata in misura crescente l'esigenza in un contesto geopolitico globale nel quale la gestione delle crisi, con tutte le loro conseguenze sui piani della sicurezza, dell'economia e dei flussi migratori, richiede una attiva presenza dell'Europa che i singoli stati membri, anche i più grandi, non possono realizzare senza una progressiva integrazione delle loro capacità. Il processo in questo campo era iniziato con il Trattato di Maastricht, quando la Francia pose come condizione all'unificazione tedesca la creazione della moneta unica e la previsione, sia pure con una gestione intergovernativa e non comunitaria, di una politica estera e di sicurezza comune, comprensiva di una politica della difesa che secondo le parole dello stesso trattato, concordate dal Presidente Mitterand e dal cancelliere Kohl, "può condurre ad una difesa comune". Il concetto fu fatto digerire al Regno Unito con un compromesso al ribasso che tendeva essenzialmente ad escludere la possibilità di capacità autonome dell'UE rispetto alla NATO. In presenza delle crisi nei Balcani e in Africa e dopo l'elezione nel Regno Unito di Tony Blair, più attento ai meriti dell'Unione Europea, il processo assunse comunque vigore con la Dichiarazione di Saint Malo del Dicembre 1998 nella quale il Presidente Chirac e il Primo Ministro britannico, pur con le rispettive riserve mentali, avevano posto le basi per un necessario salto di qualità. Questo accadde con diverse decisioni del Consiglio europeo e poi soprattutto con il Trattato di Nizza, firmato nel 2001 ed entrato in vigore nel 2003, seguiti dalla messa in campo di istituzioni, strumenti e procedure, e con l'avvio, sotto la spinta appunto delle crisi balcaniche e africane, di missioni militari e civili per la loro gestione in un quadro multilaterale. Il contesto, voluto soprattutto da Londra è però rimasto quello di una subordinazione delle capacità militari dell'UE a quelle della NATO con tentativi della Francia di svincolarsene. Su queste basi è stato quindi concordato che l'UE debba ricorrere per le proprie operazioni militari alle capacità di pianificazione, comando e controllo della NATO o alternativamente di uno degli stati membri dell'Unione, rinunciando ad averne di proprie. Il tentativo franco-tedesco nel 2003 di costituire un quartier generale europeo dotato di tali capacità, in coincidenza del resto con le divisioni sull'intervento anglo-americano in Iraq, segnò uno dei momenti di maggiore tensione all'interno delle due organizzazioni e tra le loro strutture, acuite anche dai contrasti su Cipro (membro dell'UE, ma non della NATO, che la Turchia, membro della NATO, non riconosce). Le operazioni militari dell’UE nei Balcani utilizzarono quindi assetti e capacità della NATO, mentre in Africa furono utilizzate quelle della Francia come “framework nation”. All'UE è stata comunque lasciata la competenza pressoché esclusiva delle missioni civili di stabilizzazione o di prevenzione come quelle di polizia, di rule of law, di edificazione istituzionale nei campi della sicurezza, della giustizia, della pubblica amministrazione e dello sviluppo economico, spesso in sinergia con attività della Commissione finanziate con fondi comunitari. Altro aspetto caratterizzante delle missioni europee è stato quello della collaborazione operativa con le organizzazioni internazionali e regionali. Questo è stato ed è particolarmente rilevante per le crisi africane, rispetto alle quali l'UE sostiene le capacità e le attività di gestione anche militare dell'Unione Africana e delle organizzazioni sub-regionali, come ad esempio sta accadendo con le missioni nel Sahel, tra le quali potrà essere quella in Niger al momento non inserita in un quadro PSDC (come invece dovrebbe essere) cui ha manifestato l’ntenzione di voler partecipare l'Italia. Si tratta in tale regione di missioni per la lotta al terrorismo e al traffico di esseri umani nel quadro di un approccio complessivo al tema delle migrazioni centrato sul sostegno ad uno sviluppo sostenibile e inclusivo e su una gestione legale e concordata della mobilità. E' sempre più evidente in questo quadro la consapevolezza dell’esigenza di economie di scala e del superamento o della riduzione di sprechi e duplicazioni che una maggiore integrazione o effettivi processi di messa in comune e condivisione di assetti e capacità comporterebbe, considerato che a fronte di una spesa militare dei paesi dell'UE pari a poco meno della metà di quella degli Stati Uniti la loro efficacia operativa risulta essere soltanto del 15%. Vi sono poi i mutati e mutevoli atteggiamenti americani nei confronti dell'integrazione europea nel campo della difesa. Diffidenti, sia pure con gradazioni diverse, quelli delle Amministrazioni Clinton e Bush, più favorevoli quelli dell’Amministrazione Obama con l’invito ad un maggiore impegno europeo nel Mediterraneo, nel Medio Oriente e in Africa, poco chiari quelli dell’Amministrazione Trump, la cui imprevedibilità costituisce un ulteriore incentivo per gli europei a rafforzare coesivamente le proprie capacità. Trump insiste, con una più ostentata enfasi rispetto ai suoi predecessori, soprattutto sull’aumento delle spese per la difesa dei paesi europei che senza ulteriori qualificazioni e maggiore efficienza grazie a processi di integrazione rischiano tuttavia di non portare a risultati concreti sul piano delle effettive capacità ma di produrre anzi maggiori sprechi. 2. Un più elevato livello di ambizione E' cosi cresciuto il livello di ambizione prospettato dall'Alta Rappresentante e Vice Presidente della Commissione con il sostegno di alcuni paesi nella logica di "pooling and sharing" enunciata, malgrado le diluizioni britanniche, in diversi documenti adottati dal Consiglio Europeo e dal Consiglio Esteri-Difesa a partire dalla fine del 2013 ma poi poco attuata. Coerentemente con le indicazioni della Strategia globale dell’UE presentata dall’Alta Rappresentante Mogherini e approvata dal Consiglio Europeo nel 2016, ed andando successivamente oltre essendo venuti meno i condizionamenti britannici di cui risentiva ancora il documento, è stato infatti affermato che l’UE deve dotarsi di autonomia strategica e quindi della capacità di agire autonomamente nel proprio vicinato, di schierare forze e di possedere le strutture operative ed industriali necessarie a farlo. E per evitare duplicazioni e dispersione delle spese è previsto un meccanismo di coordinamento per la sincronizzazione dei cicli di pianificazione degli stati membri (Coordinated Annual Review of Defence o CARD). Sono inoltre proposti in questo ambito: - una struttura europea permanente per la pianificazione strategica e la conduzione delle operazioni militari, partendo da quelle "non esecutive" di capacity building, il cui concetto è stato approvato dal Consiglio Esteri del marzo 2017; - lo stabilimento di una forza multinazionale europea permanentemente disponibile con una massimizzazione del rapporto costi-benefici in termini di prontezza, mobilità strategica, maggiore interoperabilità e protezione delle forze; - un sistema comune di formazione; - un crescente impegno nella cyber security, nella sicurezza navale e nell’intelligence. Viene anche prospettato un sostegno allo sviluppo di una base industriale e tecnologica strategicamente autonoma nel campo degli armamenti in grado di fornire le capacità richieste. E ciò anche attraverso: - un potenziamento dell'Agenzia Europea di Difesa (EDA), costituita nel 2004 per sostenere la ricerca e progetti comuni ma rimasta sostanzialmente inoperante a causa dei freni britannici; - incentivi fiscali e finanziari alla cooperazione industriale diretta allo sviluppo di capacità definite congiuntamente e in coordinamento con le analoghe attività condotte in ambito NATO; - il concorso della Commissione per il finanziamento di attività di ricerca a doppio uso e finanziamenti della Banca Europea degli Investimenti. E' prospettato quindi un sistema di finanziamento comune (European Defence Fund) per la ricerca, lo sviluppo e l’acquisizione di capacità di difesa, argomento in qualche modo collegato a quello della costituzione di una capacità di spesa o di un bilancio per la gestione di alcuni beni comuni, concetto ripreso dal Presidente Macron e dal Presidente del Consiglio Gentiloni, riferiti ad una autorità politica con la legittimazione democratica assicurata da un controllo, da una investitura e da un potere decisionale e normativo a livello parlamentare. Il Fondo Europeo per la Difesa ha attualmente uno stanziamento pluriennale di soli 500 milioni di euro. La crescita che si vorrebbe perseguire è diretta anche a rafforzare il pilastro europeo della NATO e quindi la capacità europea di contribuire alla difesa transatlantica e a favorire la stabilità in aree critiche per la sicurezza comune. 3. Integrazione differenziata Una effettiva più intensa integrazione appare comunque di difficile realizzazione a 27, tenuto conto delle ostilità e resistenze soprattutto dei paesi dell'Europa centro-orientale e delle remore dei paesi neutrali. Vanno quindi usati per andare in tale direzione gli strumenti previsti dai Trattati quali la cooperazione strutturata permanente (PESCO) tra i paesi che lo vogliano oppure nuovi accordi tra gruppi limitati di stati con il rischio però che questi producano nuove fratture nel continente dai seguiti imprevedibili. Una PESCO è stata effettivamente costituita nella riunione del Consiglio del 13 dicembre scorso. Ad essa, con termini di riferimento da riempire di realizzazioni concrete, hanno deciso di aderire 23, poi diventati 25, Stati membri su 27. Questa larghissima partecipazione, inclusiva di paesi esplicitamente euroscettici ma desiderosi di non essere esclusi come la Polonia e l’Ungheria, rischia tuttavia di diluire il processo e le sue ambizioni. E’ stata sostenuta con queste dimensioni soprattutto dalla Germania per mantenere ancorati paesi a rischio di deriva sul suo confine orientale, mentre la Francia avrebbe preferito una compagine più ristretta ma più coesa e con maggiori ambizioni. Si tratta ora di vedere quali progetti comuni saranno effettivamente realizzati, con o senza la partecipazione di tutti i 25. La Governance della PESCO sarà comunque assicurata dalle istituzioni europee esistenti, in particolare il Consiglio, il Comitato Politico e di Sicurezza e il Comitato Militare che da quest’anno sarà guidato dall’attuale Capo di Stato Maggiore italiano della Difesa Generale Graziano. Nell’ambito della PESCO sono stati identificati 17 progetti di integrazione per coloro che lo vogliano nei settori in particolare della cyber security, della mobilità, della formazione militare, dell’impiego in caso di disastri, della sanità militare, della sorveglianza marittima, del comando e controllo delle missioni, dei veicoli da combattimento terrestri e anfibi (All. 1). La PESCO è quindi ancora un contenitore che va riempito, con partecipazioni differenziate per i singoli progetti. Con la Brexit l'Unione Europea perde lo Stato membro che assieme alla Francia ha le maggiori capacità sul piano militare. La sua uscita, come già indicato, rende tuttavia possibile l'auspicata maggiore integrazione sul piano militare tra chi la vuole. Ma ad esso, come ad altri paesi membri che non intendano procedere ora sulla strada della maggiore integrazione, va comunque lasciata la porta aperta per partecipazioni a specifiche attività o per unirsi successivamente al processo integrativo. Per il Regno Unito questo riguarda soprattutto la partecipazione ad operazioni e la cooperazione industriale, nella quale numerosi sono i progetti realizzati negli ultimi anni da imprese britanniche con imprese italiane, francesi e tedesche soprattutto nei settori aeronautico e missilistico. 4. La volontà politica Sul terreno del sostegno ad una maggiore integrazione si sono in particolare spesi il Ministro degli Esteri e poi Presidente del Consiglio Paolo Gentiloni e la Ministra della Difesa Roberta Pinotti. Almeno nelle enunciazioni e sia pure con alcune ambiguità hanno parlato di una più intensa integrazione esponenti di Francia, Germania, Spagna e paesi del Benelux come è indicato in diversi documenti. Nel suo discorso alla Sorbona del 26 settembre scorso, il Presidente Macron ha affermato che obbiettivo europeo dovrà essere la costituzione di una capacità di azione autonoma, in complemento con la NATO. Dopo quanto fatto finora, ha detto il Presidente francese, occorre andare più avanti. Serve una cultura strategica comune da realizzare attraverso integrazioni reciproche nelle rispettive forze armate a tutti i livelli. La Francia è pronta a farlo subito nella prospettiva - è sempre Macron che parla - di una forza comune di intervento e di un bilancio della difesa comune (All. 2). Fuga in avanti? E’ probabile. Ed intanto vediamo quanto sarà di tutto questo nel nuovo Trattato dell’Eliseo e comunque nei rapporti franco-tedeschi nel cui ambito la cooperazione in campo militare è già molto avanzata. Va quindi verificato quanto l'annunciato europeismo di Macron e la volontà del Governo tedesco che scaturirà dai laboriosi negoziati in corso tra le forze politiche faranno compiere passi concreti in questa direzione, nonché come l’Italia, dopo le elezioni legislative, saprà svolgere un ruolo di protagonista assieme agli altri due maggiori paesi europei e a coloro che convintamente vorranno unirsi a loro. E' questo un tema inevitabilmente legato a quello delle scelte di politica estera per le quali può essere deciso l’uso dello strumento militare. Costantemente la Francia ha mostrato di volere un sostegno europeo, con strumenti europei, a proprie decisioni e per propri disegni soprattutto in Africa, a volte pienamente coincidenti con quelli dell’Unione nel suo insieme e a volte meno. Lo si è visto nella Repubblica Democratica del Congo, in Mali, nella Repubblica Centro Africana e in prospettiva in Niger. Le risposte sono spesso state al di sotto delle aspettative. I partner sono stati a volte riluttanti o pronti a dare contributi poco più che simbolici. La Germania ha mostrato recentemente una maggiore, seppur sempre limitata, disponibilità, al pari del Regno Unito, mentre a Parigi è stata considerata deludente la risposta italiana prima della decisione di partecipazione alla missione in Niger che nasce peraltro già con qualche incomprensione . In questo caso gli interessi europei e italiani sono abbastanza chiari, e probabilmente simili iniziative a sostegno di forze africane potrebbe essere estese anche alla Libia con una maggiore enfasi sulla protezione dei migranti, un loro rimpatrio assistito nei paesi di origine laddove possibile e l’asilo in Europa e altrove per chi ne abbia il diritto assieme alla previsione di un aumento dei canali di immigrazione legale. Sullo sfondo vi sono tuttavia i diversi atteggiamenti ai livelli di Governo, di Parlamento e di opinione pubblica riguardo all'impiego dello strumento militare. Più interventista e abituato al combattimento e alla sopportazione di perdite è quello della Francia (come del resto quello del Regno Unito). Più prudente e restio ad elevare l'intensità dello sforzo militare e le regole d'ingaggio è invece quello di Germania e Italia che anche nelle operazioni NATO forniscono in genere aerei per la ricognizione e il supporto logistico ma non per l'attacco, nonché truppe di terra per l'addestramento e il presidio del territorio ma non per il combattimento. Fino a quale livello potranno realizzarsi integrazione e condivisioni di sovranità con queste diversità di approccio e in mancanza di una piena identità di obiettivi e di visioni politiche? Resta inoltre il fatto che se si vuole passare dal livello della gestione delle crisi, per la quale servono comunque obbiettivi politici pienamente condivisi, a quello di una vera difesa comune, pur senza pregiudicare l'essenziale copertura NATO fin quando gli Stati Uniti vorranno mantenerla, sarà inevitabile porsi il problema della deterrenza nucleare francese, finora considerata come una capacita che non si può condividere per la sua stessa natura e per la sua intima identificazione con il cuore della sovranità e con la stessa sopravvivenza del soggetto che la detiene e ne decide l’uso. Come per la moneta unica uno strumento militare unificato, seppure con le gradualità che le circostanze richiedono, può essere difficilmente funzionante senza una vera unione politica in una prospettiva federale o di gestione sovranazionale come è stato perseguito in altri settori fin dall’inizio del processo integrativo europeo. E’ difficile, ma è a questa prospettiva che occorre puntare da parte dei tre maggiori paesi dell’UE assieme agli altri che vogliano seguirli su questa strada, ben sapendo che per le ragioni già esposte il percorso sarà lento e complicato e che occorre intanto realizzare tutte le collaborazioni e forme di integrazione che le circostanze rendono possibili. Per l’Europa il rapporto transatlantico resta un pilastro fondamentale della propria sicurezza, anche per la superiorità nucleare e convenzionale non raggiungibile degli americani. Ma per rafforzarlo di fronte ai segnali preoccupanti che vengono da oltre Atlantico occorre, oggi più che mai, che gli Europei accrescano la loro capacità di essere gestori, assieme all’alleato americano, di una sicurezza finora sostanzialmente lasciata nelle mani dello stesso alleato. Come ha recentemente sottolineato la Cancelliera Merkel occorre che l’Europa riprenda in mano il proprio destino.
2018
978 88 85622 39 5
integrazione, difesa, sicurezza
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